La fotografia di Pietre Sommerse e il racconto di tre mondi diversi.
Intervista al direttore della fotografia di Pietre Sommerse, Nicola Cattani.
1. Che rapporto hai con Jordi Penner, il regista di Pietre Sommerse? Quando ti ha parlato del progetto, cosa ti è piaciuto dell’idea di questo cortometraggio?
Un rapporto bellissimo. Abitiamo vicini e lavoriamo nella stessa scuola, quindi facciamo spesso passeggiate creative in cui parliamo di tutto. In realtà all’inizio non lo calcolavo molto, perché Jordi ha questo modo di raccontarsi tantissimo e quando ci incontravamo mi inondava di parole. Mi ha conquistato quando ho capito che è tutto frutto del suo entusiasmo, ma non si limita a un atteggiamento fine a sé stesso. Jordi pianifica, progetta, concretizzando passo dopo passo quello che ha in mente. Ho deciso di diventare il suo occhio perché amo questo modo di lavorare. Per decidere che atmosfera dovesse avere il mondo di “Pietre Sommerse” abbiamo discusso assieme lo script a livello narrativo, per poi condividere il momento dello scouting e valutare mille riflessioni sulle scelte di luce e sul loro significato.
La storia nasce da un’idea approfondita e ha una bella concretezza, mi piace che racconti una fratellanza corrotta. Un legame che c’è, ma è stato perso, deviato, soffocato dal dolore. Sia io che Jordi abbiamo un fratello e per certi aspetti mi sono rivisto molto in questa storia. Trovo che l’esigenza di raccontare un amore disatteso si percepisca ancora prima del racconto, per questo motivo ci sono molti agganci per empatizzare con i personaggi. Anche partendo da un vissuto diverso, in scena prendono forma i non detti tipici dei legami familiari, il senso di colpa del fratello maggiore con la sua forza mascherata, il desiderio di proteggere il fratello minore. Sono sentimenti universali, chi non ha avuto un fratello, magari, può averli provati per un amico.
Credo che questa sceneggiatura sia meno audace rispetto a quella di “Amore Cane”, il primo corto di Jordi, su cui abbiamo lavorato assieme. Ma i film che amo non sono quelli che dicono qualcosa di nuovo, sono quelli che parlano di un tema a modo proprio. Per me conta se e come dici le cose.
In “Pietre Sommerse” c’è una maturità che ci ha fatto sentire come se stessimo entrambi parlando di noi. Ci ho lavorato con una lena diversa, non solo perché la produzione è stata meno estemporanea, ma soprattutto per questa forza archetipica del racconto, che ti fa sentire come se si stesse parlando anche della tua esperienza.
2. Il racconto di Pietre Sommerse è forte, drammatico e molto intimo. Come avete tradotto questi elementi in immagine? Che effetto volevate ottenere?
La scelta principale a livello fotografico è stata quella della naturalezza. Volevamo raccontare tre mondi distinti fotograficamente. C’è un passato rappresentato dalle scene dei flashback dove splende il sole, dove la luminosità contrasta con gli eventi drammatici. C’è il mondo subacqueo del ricordo, che non corrisponde alla realtà dei fatti, ma rappresenta la pace che i personaggi trovavano giocando sott’acqua. I raggi di sole che penetrano il lago, la saturazione dei colori, infatti, fanno sentire che è lì che c’è la materia, che sotto il pelo dell’acqua c’è più vita rispetto a fuori. Poi c’è la realtà piovosa del presente, che sembra svolgersi in un non luogo e in un non tempo dove i due fratelli sono sempre soli. Sono sospesi, tanto che viene da chiedersi: questo dialogo sta accadendo davvero?
Abbiamo lavorato con grande rigore compositivo, tenendo coordinate di macchina molto rigide. Le inquadrature sono centrate, statiche, immobili, con una proporzione del quadro di 2:1, secondo le regole dell’univision di Storaro. Questa scelta di aspect ratio è abbastanza inusuale, ma chiude ognuno dei due fratelli in un quadrato, trasmettendo la loro incapacità di comunicare. La mia idea era quella di metterli in due scatole distinte, per instaurare attraverso la rigidità, il poco movimento, un parallelo immediato con la situazione fra loro, che è bloccata dal passato.
3. Quali sono state le maggiori difficoltà che hai incontrato per ottenere questa fotografia fatta di cieli piovosi?
A livello fotografico il lavoro è stato complesso. Mi sono trovato in situazioni di luce molto diverse fra loro, che si alternavano a gran velocità sulle rive del lago. Ho dovuto lavorare sul low contrast, senza punti luminosi, per rendere le scene del presente ombrose, senza vita, quando in realtà giravamo tutto il giorno e il sole c’era, eccome. Anche per il mondo subacqueo, volevamo comunicare l’idea di un ricordo travisato, che non riguardava ciò che accadeva, ma come il fratello minore si voleva sentire: sicuro, protetto, senza nessuno che potesse toccarlo. Non è stato facile trasmettere la sensazione di un mondo dove avrebbe voluto stare per sempre, perché i raggi del sole dovevano entrare in acqua in modo ben preciso.
Le due difficoltà principali, dunque, sono state mantenere la continuità di luce e non perdere la netta divisione dei tre mondi fotografici. Per tenere fede alla scelta della semplicità, mantenendo una luminosità omogenea, ho lavorato sui negativi e sui contrasti, ho illuminato gli occhi ed effettuato piccoli interventi di abbellimento. Tutte correzioni rispettose, perché la luce è un aspetto del telling, un elemento drammatico che deve accordarsi agli altri. Per fare questo mi è servita una produzione fluida, al servizio della fotografia, una squadra che lavorasse velocemente per non spalmare troppo i tempi, magari preparando le cose in camera, per girare subito quando c’era il cielo piovoso giusto sopra il lago. Abbiamo cercato di non tradire l’identità intima che desideravamo. Se poi da qualche parte non riuscivo proprio ad arrivare, mi dicevo: “Da qui in poi ci pensa Sergio!”.
4. Quali sono secondo te gli elementi immancabili in una squadra di lavoro che funziona? Com’è stato condividere questo progetto con i colleghi di Officina e con persone che conosci molto bene, non solo dal punto di vista lavorativo?
La comunicazione, un elemento affatto scontato. Se hai persone valide vicino, devi assicurarti di avercele con cuore, tempo e attenzione. Questo è un settore dove generalmente si prende e si fa, cosa che ti si ritorce contro anche quando hai dei bravissimi collaboratori, se prima di agire non hai messo interiorizzato dei concetti. È come andare in battaglia senza strategia d’attacco. Il procedimento per cui mi chiedo perché scegliere quella luce prima di posizionarla, per me è necessario. Non è che posso metterla solo perché l’ho visto fare.
Poi è chiaro che sul set si è anche cacciatori e bisogna trovare la migliore soluzione in tempi brevi, ma la riunione preliminare è necessaria, perché decide come si lavorerà dopo. Questa cosa del parlare, ascoltare e proporre c’è molto in Officina. Da questo punto di vista Sergio è il mio specchio, la vive come me e crede nella leadership condivisa. Quando incontro persone così affini me le tengo strette, non solo sul lavoro.
Parlare assieme significa prendersi delle responsabilità ben definite, dalle quali non si può sfuggire. Rende impossibile togliersi dal confronto e fa sentire moltissimo il progetto, perché ogni decisione diventa di tutto il team.
Il regista e il dop generalmente parlano molto per mettere a fuoco alcune suggestioni, ma la comunicazione dovrebbe essere estesa anche a tutti gli altri collaboratori. In Officina Immagini questo accade sempre. Per esempio, Sergio è tra i pochi in Italia che sul set fa un piccolo brief di dieci minuti, per presentare fra loro tutti i membri del team, chiarendo i ruoli. Questo accorcia i tempi di ore, infatti definisco Sergio un ottimizzatore, uno che mette tutti i punti nero su bianco. Ci troviamo molto su questo aspetto, infatti gli chiedo spesso un parere anche sui progetti che non condividiamo.
5. Qual è l’aspetto del tuo lavoro che ami di più? Per quanto riguarda Pietre Sommerse, quale parte della realizzazione ti ha entusiasmato maggiormente?
La cosa più bella è che conosco persone in gamba che hanno fatto le vite più diverse e sono letteralmente fuori dagli schemi. Quando penso che nel mio lavoro ti pagano per stare con persone magiche e viaggiare, mi chiedo: “Perché non lo fanno tutti? Dovrebbe essere così per legge”. Per questo mi domando spesso come si faccia a fare diversamente, ad abituarsi al peggio degli altri.
Della parte operativa mi piace lo shooting, quando arriva quel momento in cui tutti i tuoi pensieri si iniziano a costruire in macchina. I primi giorni di set, quando il mondo che hai in testa inizia avere un odore, danno senso a tutto, è una sensazione simile ad una droga. Questo mestiere è un viaggio nel viaggio: accanto allo spostamento fisico c’è quello nei micro-mondi che costruisci con le immagini. Pensare che sto contribuendo a costruire un acquario finito, dove gli altri vedranno il mare, l’infinito, mi emoziona, perché so che grazie a una composizione che inquadro, il mondo che ho immaginato diventerà credibile, anche se a un metro c’è qualcosa che non c’entra nulla, che svelerebbe il trucco magico.
Amo anche il lavoro con gli attori, mi sento un umile servitore delle performances attoriali e mi è piaciuto molto questo aspetto in “Pietre Sommerse”. Anche se sul set siamo tutti interpreti, me compreso, trovo che loro portino più valore alla storia, perché sono i personaggi. Se non sono credibili, non lo sarà nemmeno l’architettura che gli costruisco attorno con la luce. Un personaggio finto fa finire tutto.
Nei libri come nei film, mi emoziono se trovo personaggi ben costumati, che stanno in piedi e mi sembrano veri, anche nelle loro bizzarrie. Devo trovare l’universalità che mi permette di riconoscermi nella loro unicità, perché i personaggi sono l’elemento incisivo di una storia, quello che viene ricordato sempre anche quando si dimentica la trama. Per questo non c’è niente come il set: costruire un mondo che accoglie gli attori, che magari li aiuta a performare, per me, è qualcosa di bellissimo. Jordi è uno che dirige molto bene gli attori, lavora davvero assieme a loro e questo aggiunge un grande valore.
Non mi sbottono con troppi complimenti, sennò mi rinfaccia la prima volta in cui ci siamo visti. Lui era ancora uno studente, si trattava del set di un video per un evento con ospite il grande compositore Philip Glass. Tenne l’ombrello sulla macchina da presa e mi aiutò come assistente di produzione. Mi ha raccontato, quando ci siamo conosciuti bene, che quello era stato il suo primo set e che vedendomi lì a girare, gli era venuta voglia di fare questo mestiere. Alla fine, eccoci qua, e stiamo già lavorando al prossimo progetto!