12 Ottobre 2022 Irene

Gino Soldà – Una vita straordinaria.

Parte Seconda: Officina Immagini

La squadra di Officina Immagini ha collaborato alla realizzazione del documentario “Gino Soldà – Una vita straordinaria”, mettendo le proprie competenze a servizio del racconto, per realizzare al meglio il ritratto cinematografico di quest’uomo fuori dal comune.

Abbiamo chiesto a Uber Mancin, il direttore della fotografia, quali sono state le scelte di luce che gli hanno permesso di tirare fuori i diversi volti di Gino Soldà: alpinista, partigiano, imprenditore, ma soprattutto uomo straordinario.

1. Come hai lavorato sulla fotografia per far sì che l’elemento del paesaggio, fondamentale per raccontare la figura di Gino Soldà, fosse in armonia con il protagonista del film?

Abbiamo considerato la montagna come un elemento vivente, un soggetto attivo e per rendere questa suggestione nel film ci siamo concentrati in particolare sulla sua imponenza e sulla verticalità. Il primo elemento lo abbiamo usato per mettere in risalto la proporzione, o meglio la sproporzione, tra la grandezza e la magnificenza di queste lingue di roccia e la dimensione umana.

Il secondo elemento sottolinea i caratteri di sfida, tenacia e follia che servono per compiere le imprese in cui Soldà è riuscito: il desiderio di sperimentare, di ascendere in stile alpinistico e la necessità di creare un dialogo con la montagna, di curare la relazione con lei, perché quest’ultima riveli la via migliore fino alle cime.
Dal punto di vista tecnico il sensore VV (Vista Vision) della macchina da presa Red Monstro e le ottiche grandangolari ci hanno permesso di dare respiro e ottenere le proporzioni che desideravamo.

2. Quali sono state le maggiori difficoltà a livello fotografico?

Le maggiori difficoltà a livello fotografico le abbiamo incontrate nelle riprese in parete, cioè nel momento in cui le condizioni ambientali determinavano la nostra capacità di ragionamento e azione.
Per me è stato un momento intenso e magico: un bel mix tra desiderio, fiducia e adrenalina.

Abbiamo pianificato molto bene la giornata di set, scoperto i punti macchina e grazie al supporto di Paolo Dani, la nostra guida CAI, abbiamo svolto le riprese in totale sicurezza.

Appena ho visto Simone Moro iniziare a scalare la paura iniziale ha lasciato il posto alla determinazione di esigere il meglio da me stesso e l’adrenalina ha fatto il resto. Continuavo a volermi esporre sempre un po’ di più, “a chiedere corda”: è stata una bella battaglia tra i sentimenti e la voglia di eccellere.

Ero consapevole che nella mia vista e nelle mie dita c’era il lavoro di un gruppo di persone molto affiatate e quindi volevo che il risultato fosse il migliore possibile per me e per loro.

3. Che cosa dovevano trasmettere le scelte di luce, della vita straordinaria di questo grande alpinista?

Il film è composto da scene molto luminose come gli esterni, che si concentrano sui semplici gesti della vita quotidiana e intima di Gino ed altre scene più buie come quelle che ritraggono il Gino partigiano durante la Seconda Guerra Mondiale. Nelle riunioni di pre-produzione abbiamo tenuto conto di questa duplice funzione della luce: esaltare i momenti positivi e drammatizzare i momenti di tensione.

Nel primo caso abbiamo usato luci morbide e diffuse proprio nel tentativo di raggiungere atmosfere intime, calme e dai toni caldi. Nel secondo caso abbiamo sfruttato i controluce, giocato in low-key e usato molto la camera a mano per permettere allo spettatore di immedesimarsi nei momenti tragici di fuga, lotta e clandestinità a cui Gino era costretto a causa del regime e della guerra.

4. Qual è secondo te l’elemento più forte di questo documentario?

L’elemento più forte del film è darci la possibilità di riflettere sulla relazione tra l’essere umano e la montagna. Molti tendono a pensare alla montagna come un elemento statico, come ad un gigante dormiente che nulla può svegliare o scalfire.
Allo stesso tempo, si tende spesso a immaginare gli alpinisti come dei pazzi in conflitto con la natura, si pensa che l’alpinista sfidi la montagna per imporre il primato dell’uomo: niente di più sbagliato.

La montagna cambia, e lo fa in dialogo noi, restituendoci anche un’immagine della nostra società: ci siamo resi conto che la montagna è fragile nella sua enormità, Vajont, Vaia e Marmolada sono 3 esempi molto chiari e localizzati nel territorio dei danni che possiamo arrecare con modelli di sviluppo a corto respiro, a degli ecosistemi che ci hanno sempre protetto e dato vita. In questo contesto, gli alpinisti sono spesso persone che cercano di farci riflettere su questi aspetti con le loro esperienze, fotografie e racconti.
Voglio immaginare Gino come uno di loro: una persona non ossessionata dal superamento dei limiti ma affascinata dallo scoprire quanto possa essere vasto l’orizzonte rispettando i limiti che la montagna ci impone.

Alessandra Cernic, Montatrice del biopic, ha curato un aspetto fondamentale e particolarmente complesso di questo documentario: far comunicare nel modo corretto le diverse linee narrative che compongono questo racconto stratificato.

1. Qual è stato il tuo approccio a questo film biografico?

Proprio perché si tratta di un film biografico, per prima cosa mi sono informata per capire chi fosse davvero Gino Soldà. Ho ascoltato i registi Giorgia e Manuel, chiedendo loro perché erano così interessanti alla sua figura e come intendevano raccontarla nel film.
Mi interessava sapere cos’ha reso la sua vita “straordinaria”, come si legge nel titolo.
Questo perché i registi erano interessati a svelare la persona di Gino, al di là delle sue imprese sportive.

2. Quali chiavi fondamentali hai individuato prima di iniziare il montaggio, per raccontare al meglio la storia di Gino Soldà?

Per documentarmi, infatti, sono partita da alcune references di documentari biografici che approfondivano il lato umano del loro protagonista, oltre ai motivi della sua fama.
Questi film mi sono serviti per individuare l’ordine più corretto da dare alla storia di Gino.

Il film è fatto di componenti diverse e i registi avevano preparato una traccia da seguire per ordinarle: avevano già in testa la cronologia degli eventi, e siamo partiti da lì per mettere assieme tutti gli elementi.
Capire i tempi è stato essenziale perché Manuel e Giorgia (Ndr i registi) avevano molte cose da raccontare, dovevamo rimanere del tutto centrati su quello che ci interessava maggiormente.

3. Su quali elementi ti sei concentrata maggiormente per questo lavoro?

Ci siamo concentrati su una persona che è stata straordinaria per motivi che vanno oltre le sue doti di alpinista. La lotta partigiana per amore della libertà, la formula delle scioline che ha lanciato la sua carriera in campo imprenditoriale, l’impresa sul K2 che ha rivelato il suo temperamento: abbiamo cercato di tirare fuori il lato umano, i pensieri di Gino, il modo in cui ragionava.

4. Cosa doveva emergere con più forza?

L’obiettivo espressamente richiesto dai registi era quello di mostrare l’uomo al di là dello sport. C’è un discorso fatto da Simone Moro che secondo me riassume alla perfezione la grandezza di Gino e l’intento del film.
Gino Soldà è stato uno dei pochi che ha saputo vivere appieno il suo sogno, senza morire a causa di esso. Rispetto a tanti che non hanno saputo riconoscere i loro limiti, è sempre riuscito a fermarsi al momento più giusto, e raccontare i suoi ultimi giorni serve a sottolineare quanto questo suo senso della misura gli abbia consentito di vivere al massimo.

5. Ti sei trovata di fronte a difficoltà particolari? Quali?

Il film si muove su diverse linee narrative, procede su diversi piani, dunque, la maggiore difficoltà al montaggio è stata riuscire a far quadrare tutto. Inoltre, mentre lavoravano, i registi hanno sentito l’esigenza di riscrivere il film in alcuni punti.
In questi casi abbiamo ricostruito la narrazione di parti di documentario o delle interviste in montaggio. Cambiare la struttura del film in questi casi è possibile, perché momenti discorsivi come le interviste danno margine di modifica. Per quanto riguarda le scene di fiction, invece, questo spazio di manovra non esiste. La fiction è retta da una sceneggiatura, dunque vincolata ad essa, a delle precise battute e inquadrature.

La difficoltà maggiore per me è stata mantenere la fiction così com’era stata pensata e accordarla con alcune parti delle scalate, delle interviste o di documentario che andavano invece modificate.

Le scene di finzione sono state i punti fissi attorno ai quali ho ricostruito il resto, tenendo conto delle modifiche di Giorgia e Manuel e del fatto che lo spettatore deve arrivare a una scena con le giuste informazioni per comprenderla. Non bisogna mai perdere il ragionamento, la motivazione per cui un’immagine è in un punto e non in un altro, perché funziona lì e non altrove.

6. Come hai affrontato, al montaggio, la necessità di tenere assieme tutte queste linee narrative parallele?

I registi stessi si sono confrontati con materiali molto diversi, che al montaggio dovevamo far comunicare. Nell’idea iniziale del film le linee narrative dovevano essere indipendenti, parallele, ognuna di esse doveva raccontare uno degli episodi della vita di Gino.

Nella versione finale, invece, pur rimanendo linguaggi diversi con impianti diversi, queste linee sono più intrecciate, complementari. Abbiamo ripensato l’andamento dei vari piani narrativi rispetto al materiale che abbiamo raccolto. Infatti, per quanto un documentario possa essere preparato, non sai mai cosa succede, c’è sempre una parte di improvvisazione. Lo stesso vale per le interviste, che sono materiale duttile e possono cambiare molto in base a come viene intavolata la conversazione e a come vengono fatte le domande.

Ci siamo trovati con alcune cose che erano diverse dal previsto, da abbinare a dei punti fissi rappresentati dalle scene di fiction, che facevano da raccordo. Da qui siamo partiti con la riscrittura al montaggio, che per me è stata davvero entusiasmante. Trovare le soluzioni per armonizzare tante componenti diverse è stato molto divertente, anche perché questo tipo di operazione creativa rappresenta la massima potenzialità del mezzo.

La correzione colore di Sergio Cremasco è servita ad accompagnare lo spettatore dentro i pensieri di Gino, creando un’atmosfera introspettiva che avvicina lo spettatore alle riflessioni del personaggio negli ultimi giorni della sua vita.

1. Come sei arrivato all’atmosfera colore più corretta per descrivere le imprese di questo grande alpinista?

Questo film biografico su Gino Soldà è un documentario stratificato, fatto di cinque filoni narrativi che procedono in parallelo a livello visivo. Ci sono le scene di fiction, il materiale di repertorio (filmini arrivati dopo un intervento di restauro e foto originali), le interviste fatte a persone diverse, in momenti e luoghi diversi, la parte che riguarda il territorio e le riprese delle scalate.

A questi, si aggiunge una linea ulteriore, che riguarda le riprese audio, ed è quella delle voci narranti che accompagnano le immagini. Con la color correction ho cercato di dare un’identità ad ognuna di queste componenti visive del racconto, rispettando ciascuna di esse. Per quanto riguarda i filmini e le testimonianze dell’epoca, per esempio, l’approccio è stato ben diverso rispetto a quello che ho utilizzato per il materiale di fiction.

Un po’ come svestire una casacca e indossarne un’altra, per avere sempre addosso l’abito più giusto per la storia.

2. Il documentario ripercorre diversi momenti della vita di Gino Soldà, quali sono le principali emozioni che avete voluto trasmettere con la color correction?

La color correction fa parte di un discorso più ampio, infatti, segue coerentemente il lavoro sulla fotografia e la recitazione degli attori. Il film ripercorre gli ultimi giorni della vita di Gino Soldà, mettendo in scena dei momenti di profonda riflessione dell’alpinista, ormai anziano.

Le scelte di luce e il lavoro degli attori sono indirizzati a far entrare chi guarda nella testa del protagonista, e la color è perfettamente allineata a questo intento fondamentale.
Ho lavorato molto sui sottotoni, collaborando con Uber Mancin, il direttore della fotografia.

Non c’è tristezza, ma grande introspezione. Forse l’unica scena che trasmette un sentimento di serenità assoluta, è quella del ballo fra Gino e sua moglie, per il resto lo scopo della narrazione è quello di esplorare i pensieri del protagonista.

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