22 Settembre 2022 Sergio

Ti mangio il cuore, il bianco e nero profondo e “anziano”

Sergio Cremasco, colorist di “Ti mangio il cuore”, ci porta nel suo immaginario visivo e ci racconta in questa intervista le suggestioni e le motivazioni del suo lavoro sull’ultimo film di Pippo Mezzapesa.

Come hai conosciuto Michele D’Attanasio, il direttore della fotografia?

Con Michele ci conosciamo da tanti anni, l’ho incontrato la prima volta quando lavoravo a Milano perché mi sono occupato della correzione colore di un suo videoclip. Le nostre carriere sono poi proseguite lungo strade diverse e, pur essendoci incrociati alcune volte negli anni, non abbiamo più lavorato assieme.

Ci siamo ritrovati durante la primavera dello scorso anno, perché entrambi abbiamo collaborato alla realizzazione del film “War – La guerra desiderata” di Gianni Zanasi, con cui lavoro da anni, che verrà presto presentato al Festival del cinema di Roma e uscirà nelle sale a novembre 2022.

Con Michele l’intesa sui provini e sulla preproduzione di “War” è stata ottima, tanto che ha voluto coinvolgermi in un nuovo progetto su cui stava cominciando a ragionare, un film in bianco e nero sulla mafia del Gargano del suo amico regista Pippo Mezzapesa.

L’idea mi ha subito preso, e quando gli ho mostrato i miei provini, il materiale prodotto si è rivelato interessante sia per l’intento fotografico sia per la drammaturgia. Così siamo partiti a lavorare assieme su “Ti mangio il cuore”.

Come siete arrivati a definire il look più corretto per il racconto di “Ti mangio il cuore”?

Tutto è nato da questi primi provini, sui quali ci siamo trovati in sintonia perché Michele puntava a realizzare una fotografia che quasi non esiste più al cinema, partendo da un “linguaggio” del bianco e nero “anziano” che mi affascina molto.
Guidati da questa suggestione, Michele aveva scelto delle lenti che togliessero quanto più possibile l’effetto “digitale”, per costruire delle immagini più analogiche, più organiche di quelle che si è generalmente abituati a vedere nei film.
Con le apparecchiature digitali di oggi, infatti, diventa molto difficile ottenere delle immagini in bianco e nero che siano consistenti, piene, ricche di texture e composte da tanti livelli di grigio.

Ottenere la ricchezza che desideravamo ha comportato un enorme lavoro in fase di produzione: sul set tutti i costumi, il trucco e le scenografie sono stati pensati in funzione del bianco e nero, in vista della traduzione di ogni colore sulla nostra scala di grigi. Inoltre, per portare a casa tutte le informazioni che ci servivano dall’immagine, ho lavorato molto sul set up della macchina da presa e sulle LUT, che ho impostato rifacendomi al sistema zonale di Ansel Adams.

Questa tecnica, che avevo studiato e utilizzato all’inizio della mia carriera per le fotografie in bianco e nero, prevede di poter posizionare l’esposizione corretta all’interno di 10 step che vanno dal bianco al nero, ed è ciò che conferisce ai paesaggi di Adams, alle sue stampe che raffigurano i parchi della California e dello Utah, una profondità e una trasparenza impressionanti.
Per portare nel film questa grande spazialità e tridimensionalità, mi sono basato sugli stessi rigorosi parametri di esposizione, associati a dei rapporti di contrasto su cui Michele ha lavorato scena per scena.

Ogni volta che giravamo qualcosa o che preparavo un setup o un look controllavamo tutto in proiezione nella posthouse Lightcut Film. Il nostro bianco e nero ci ha accompagnato durante l’intero processo creativo; nei giornalieri, nelle fotografie di scena, nei monitor sul set, non c’era nulla che fosse a colori.
In questo modo abbiamo sempre respirato la corretta atmosfera del film.

Cosa ha significato lavorare in bianco e nero su questo film, per quanto riguarda la color correction?

“Ti mangio il cuore” mi ha portato in un immaginario visivo preciso, che è quello che conosco e ho conosciuto attraverso il grande fotografo Ferdinando Scianna, in particolare con le sue fotografie che ritraggono il mondo siculo del passato. Nonostante il film sia stato girato in Puglia, ho trovato che alcune atmosfere richiamassero questa particolare sensibilità fotografica, caratterizzata da un bianco e nero estremamente profondo.

Le scene che abbiamo costruito, infatti, contano più di otto, nove, anche dieci livelli di grigio: un’estensione enorme, che ci ha permesso di realizzare degli incarnati densi e rugosi, capaci di far percepire tutta la pastosità della materia, la porosità della pelle, e di allontanarci dalle immagini eteree e impalpabili dei film digitali.

Lavorare in bianco e nero, infatti, non significa soltanto togliere la saturazione da un mondo a colori, ma interpretare ogni sfumatura di grigio, che va creata a partire dai colori già presenti nell’immagine. In questo film ciascun blu, giallo o verde veniva tradotto singolarmente in un tono di grigio più chiaro o più scuro, in base alla scala che mi ero prefissato. Il look finale esprime tutta la potenza del bianco e nero, che consiste nel dare allo spettatore la possibilità di immaginare nitidamente ciò che esiste con la forza di un’immagine già interpretata, lontana da ciò che i nostri occhi riescono a vedere.

Il nostro lavoro, la tecnica, le stesse scelte degli strumenti, sono serviti a raccontare in modo netto, crudo, la storia del film, creando un bianco e nero che è a servizio del racconto, perché toglie ogni leziosità per esprimere il sentimento di Marilena, la protagonista, in modo schietto.

Quali sono state le maggiori difficoltà che hai incontrato?

Il bianco e nero può portare a delle scelte che abbandonano il mondo fotografico per entrare nel mondo della grafica, e io non volevo che questo accadesse, non volevo che diventasse un film come “Trecento”.
Il dramma e la crudità, poi, ti portano a lavorare molto sui toni scuri, a chiudere tutto nel nero. Il rischio era quello di eccedere fino a nascondere i personaggi, quando la narrazione del film, al contrario, è fatta di persone che nella loro realtà, nel loro dramma, si manifestano.
Non volevo perdere assolutamente questo aspetto, dunque ho fatto molta attenzione ai sottotoni per evitare il contrasto netto luce/ombra che porta al linguaggio “fotocopia”, un effetto che avrebbe appiattito le molte sfumature che danno vita al racconto, invece di valorizzarle al massimo.

In generale siamo stati molto attenti a non cadere nel tranello di una rappresentazione patinata, a non cavalcare l’onda glamour che si tende ad associare anche alla protagonista scelta da Pippo Mezzapesa, la cantante Elodie… devo ammetterlo… ero partito prevenuto su di lei, per i suoi esordi da “amica di Maria”, ma dopo aver visto il primo rullo ho dovuto ricredermi, perché sono stato letteralmente catturato dal suo talento. Elodie in questo film è sempre intensa, credibile, perfetta per vestire i panni di Marilena.

Quali sono, invece, i punti di forza di questo film?

Credo che il maggiore punto di forza sia l’armonia di tutti i codici linguistici contenuti in questo film. Dal canto mio, il look riesce a creare qualcosa che accompagna lo spettatore lungo la storia dall’inizio alla fine, ed è così funzionale al racconto che ti rendi conto solo all’inizio di guardare un film in bianco e nero. Dopo cinque minuti, non ci pensi più.

Non pensi più all’iconografia classica delle produzioni in bianco e nero, perché il look ti trasporta, ti prende per mano e ti accoglie permettendoti di entrare nelle vite dei personaggi, evolvendole man mano, avvolgendo gli attori.

Grazie Sergio!

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