28 Novembre 2022 Sergio

Oltre le barriere della nostra libertà.
Andrea Magnani ci racconta il suo ultimo film: “La lunga corsa”.

“Molte persone sentono che la propria vita è aperta al mondo, ma poi quel mondo non lo affrontano.
Lo ambiscono, ma non hanno il coraggio di conoscerlo, di esplorarlo.
Vivere il mondo è un po’ come vivere se stessi.
A volte abbiamo paura ad oltrepassare i nostri confini, sia fisici che mentali, e rimaniamo in una comfort zone che ci fa sentire sicuri.
Ecco… Con questo film volevo gettare il cuore oltre l’ostacolo, andare oltre il recinto”.

Andrea Magnani, regista e sceneggiatore italiano di “Easy, un viaggio facile facile”, con queste parole ci introduce il suo ultimo film “La lunga corsa”, in concorso al Torino Film Festival, e ci offre uno sguardo sui recinti che limitano le nostra libertà, cercando di oltrepassarli.

Come? Mostrando al pubblico cosa vuol dire guardare il mondo da dietro le sbarre, per poi guardare le sbarre con il mondo dietro.

1. Come inizia la tua carriera da regista, e attraverso quale percorso?

Io nasco come sceneggiatore. La mia passione è sempre stata la scrittura anche se poi non sono uno scrittore, uno sceneggiatore prolifico, anzi!
Faccio molta fatica a mettere delle idee su carta. È un processo che ha spesso a che fare con la consapevolezza che non puoi buttare su carta tutto quello che ti passa per la testa.
Quindi ho iniziato come sceneggiatore, e il mio passaggio alla regia è stato molto naturale. Da sempre ho manifestato l’interesse nell’esprimere le cose che scrivevo anche su immagini in movimento, ovvero sulla direzione degli attori e in qualche modo anche della regia stessa.

È stato un percorso che mi ha portato alla consapevolezza di poterlo fare quando mi sono misurato con altre figure di colleghi registi, e ho visto che quello che serviva sulla pratica era il punto di vista, l’interpretazione. Al regista viene chiesto questo: l’interpretazione di un testo, l’interpretazione di un’idea, e quello non mi mancava, non lo vedevo come un gap e allora ho detto: “Perché no? Ci provo”.

2. Quali sono le difficoltà più grandi che incontri, che hai incontrato, da quando fai il regista?

Le difficoltà più grandi che ho incontrato da quando faccio il regista forse sono due.
La prima, per chi viene come me dalla scrittura non sempre è facile cimentarsi con alcune terminologie tecniche. Questo però è un finto problema, perché il regista è come un direttore d’orchestra, quindi è qualcuno che poi ha l’aiuto e il supporto di tante altre figure che in qualche modo suppliscono a quelle mancanze, e poi con l’esperienza questo gap tecnico viene colmato dall’esperienza.

L’altra cosa è che una figura come la mia è duplice: produttore e regista dei propri lavori, e spesso queste due figure non vanno d’accordo.
Il produttore è colui che deve gestire un budget e il regista è quello che vorrebbe fare le cose, e quindi mi trovo in una condizione ambivalente, e a volte non è facile.

Però è anche vero che ho sempre cercato di correre su questo doppio binario – produttore e regista – per i miei lavori, perché mi permette una certa dose di indipendenza, e paradossalmente la possibilità di mantenere la creatività intatta, nonostante i compromessi che bisogna prendere con sé stessi.
Magari alcune cose non te lo puoi permettere, però al tempo stesso puoi trovare delle soluzioni a tuo favore per mantenere un aspetto creativo indipendente e non comandato dall’alto.

3. Cosa ti ha spinto vent’anni fa a scrivere una sceneggiatura ambientata in un carcere?

Da sempre ho voluto capire la figura della reclusione, ovvero come ci ritroviamo a fare i conti con la nostra libertà quando ci è privata, e questa è una cosa che i carcerati, i reclusi, vivono in modo evidente.
Da questo aspetto poi ho cercato di costruire una storia, che in realtà inizialmente sembra raccontare il carcere, ma la verità è che racconta un po’ di tutti noi.

Mi ricordo che all’epoca arrivai all’idea di una storia ambientata in carcere dopo aver letto un rapporto Antigone di quell’anno.
Antigone è un’associazione che esiste tuttora e che si occupa di mappare il sentimento delle carceri italiane stando dalla parte dei carcerati e non delle istituzioni, affinché anche i carcerati possano avere una voce.

4. Quali sono state le difficoltà più grandi nel realizzare La Lunga corsa?

C’è stata una difficoltà produttiva legata agli aspetti finanziari.
È un film in qualche modo piccolo che è stato girato in un paese straniero, l’Ucraina, quindi c’erano delle difficoltà finanziarie che hanno portato anche a dei piccoli tagli di sceneggiatura. Non sono tanto i tagli in sé a cui far fronte, piuttosto al buco che lascia all’interno della sceneggiatura. E a questo punto devi saper saper ricucire, reinterpretare, riscrivere e il tutto senza “spendere”.

L’altra difficoltà è stata girare in un paese straniero con una lingua molto diversa dalla tua, con l’inglese che non era una lingua veicolare sul set perché non tutti lo conoscono in Ucraina.

Difficoltà mitigata in parta dal fatto che io avevo già girato in Ucraina il mio primo film: “Easy un viaggio facile facile”, e nonostante molte persone della troupe fossero cambiate, avevo comunque un’esperienza sul mondo dell’industry del cinema ucraino, e questo mi ha aiutato.

Le tematiche di un film che ti possono portare a delle difficoltà sono molteplici, però è anche vero che girare un film è sempre un grande viaggio, è sempre una grande avventura e qualsiasi cosa che ti sembra essere una difficoltà si riesce poi a vedere sotto un’altra luce. Ed è qui che la difficoltà a volte si trasforma in un punto a favore.

5. Come ti approcci sul set? E con la troupe?

Io tendo essenzialmente ad essere uno con manie di controllo, sia nella scrittura – che faccio io e quindi mi controllo da solo – sia sul set e nella post, cerco di essere presente in tutti gli aspetti della lavorazione di un film.
Sicuramente prediligo fare una lunga pre-produzione, in modo tale da arrivare preparato sul set. Provare ad arrivare preparato al meglio con le location, con le inquadrature, quindi lavorare a stretto contatto con il direttore della fotografia, lo scenografo, lavorare sui colori, sui costumi… Questo è un aspetto che a me piace molto nella fase preparatoria.
Poi sul set sono un po’ ansioso forse, e la troupe lo percepisce, però cercano tutti di darmi una mano, dagli attori ai runner, diciamo che capiscono che a volte sono un po’ fuori di testa e cercano di aiutarmi.

6. Che ruolo hai voluto dare alla fotografia per la Lunga corsa?

A me piaceva molto il tema del dentro e fuori, bianco o nero, quindi ho cercato di dare alla fotografia una sorta di simmetria che potesse raccontare questa dualità.
Simmetria che ho cercato di trasmettere anche mettendo al centro il personaggio, al centro dell’inquadratura dove magari alle spalle o davanti ha la grande struttura carceraria, questo è un modo che abbiamo utilizzato per conferire centralità al personaggio all’interno di quel luogo.

E quindi che sia dentro o che sia fuori mi piaceva anche questo aspetto quasi “wes andersoniano” di vedere il mondo: con la centralità del personaggio su tutto.
Al tempo stesso abbiamo cercato di usare la fotografia e la luce proprio in funzione di questo senso di “dentro e fuori” per raccontare il personaggio protagonista, laddove il racconto lo permetteva, in chiaroscuro: una metà del volto scuro e metà del volto illuminato dalla luce, per trasmettere anche questo senso di divisione che appartiene al protagonista Giacinto.

Era una persona divisa dentro sé stesso, divisa tra dentro e fuori, su cosa è giusto e su cosa è sbagliato, su cos’è la libertà e cosa non lo sia. E quindi la fotografia si è in qualche modo adeguata al racconto e ho trovato in Yaroslav Pilunskiy, il direttore della fotografia ucraino, una spalla incredibile, perché ha da subito capito il tipo di narrazione che volevamo dare al film, il tipo di fotografia e il senso che poteva avere per noi.

7. La lunga corsa è una denuncia sociale? Se sì, di cosa?

Innanzitutto partiamo dal fatto che secondo me ogni autore quando racconta una storia dà una visione del mondo, e quindi prende posizione su quel mondo.
Questo film, nonostante sia una favola tragicomica, un coming-of-age, racconta l’aspetto introspettivo di tutti noi riguardo la propria libertà e la propria vita. Al tempo stesso ho anche cercato di non rendere mai superficiale il luogo del carcere. Perché non sono luoghi da prendere con superficialità, sono luoghi in cui si consuma una sofferenza atroce, indipendentemente dal fatto che siano detenuti o agenti.

Ad esempio, credo di non averlo mai detto in pubblico, c’è un grande numero che campeggia al centro del cancello pesante di ferro all’entrata del carcere nel film, che è un 62, questo è il numero dei suicidi in Italia nel 2020 in carcere. Io l’ho messo senza sbandierarlo, proprio perché ci potesse essere, anche senza dire nulla, un elemento che renda non dico giustizia a questi luoghi di sofferenza, ma un senso di dignità e rispetto.

Dopo aver raccontato il carcere in questo modo, in un modo abbastanza costruito e rarefatto, quasi finto, ho voluto finire con i titoli di coda senza musica, sulle entrate di diversi carceri italiani chiusi, questo per ricordare che noi stiamo raccontando una storia che parla di Giacinto e che parla del suo percorso di vita all’interno di quel carcere in un tono di tragicommedia, ma al tempo stesso questi luoghi esistono veramente e questi titoli di coda stanno lì a rappresentare questo.
E non credo che questo faccia di me un autore della denuncia sociale, ma ci sono delle posizioni che uno prende e io ho cercato di farlo in questo modo.