Il corto “Pietre Sommerse” raccontato dal regista Jordi Penner
A pochi giorni dalla presentazione di “Pietre Sommerse” al prestigioso Figari International Short Film Fest il regista Jordi Penner racconta in questa intervista la genesi e l’evoluzione del suo cortometraggio.
1. Perché hai scelto di raccontare proprio questa storia?
“Pietre Sommerse” nasce dall’immagine di un gioco che facevo da bambino: correvo sott’acqua con una grossa pietra tra le mani, andando più a fondo che potevo, per poi abbandonarla e tornare a galla. Questo ricordo mi è sembrato una metafora perfetta delle dinamiche legate alla dipendenza e delle conseguenze che un trauma porta con sé. Conoscevo piuttosto bene il tema, un po’ per studi precedenti, un po’ per esperienze di persone a me vicine che ho aiutato in passato.
Avevo anche voglia di progredire nella ricerca, cambiando il linguaggio visivo del mio cinema. Nel mio primo corto “Amore Cane” abbiamo lavorato quasi esclusivamente sugli interni e con inquadrature molto ravvicinate. Girando per festival mi sono reso conto che per il mio nuovo progetto volevo fare l’esatto opposto. La tela cinematografica è vasta, ideale per grandi vedute che abbracciano spazi ampi, isolando i personaggi.
Per “Pietre Sommerse” ho infatti scelto di girare interamente in esterni, sul Lago di Ledro, il luogo che conosco meglio al mondo perché è dove sono cresciuto. Volevo che il lago trasmettesse la sensazione di un luogo desertico, di uno spazio mentale, per arrivare a raccontare uno spaccato di vita reale descrivendo dei luoghi interiori per metafore visive. Poche immagini ben selezionate, il più possibile iconiche.
Ho infatti immaginato composizioni e posizioni di macchina già in fase di storyboard. Tutto il lavoro preliminare è servito moltissimo a fare diventare il lago metafora della memoria, la pietra una zavorra mentale, la barca un ponte verso il passato e così via. In questo corto l’immagine, sotto alla maschera di realismo, non è mai ciò che appare, ma si fa simbolo dell’interiorità dei personaggi.
2. Cosa vuole fare arrivare “Pietre Sommerse” a chi lo guarda?
Credo che ognuno filtri la visione di un film con la propria esperienza e il proprio punto di vista, per me è impossibile avere un’interpretazione univoca di un contenuto artistico o di un’idea.
Ho voluto portare sullo schermo il dramma che molte persone si trovano a fronteggiare nella loro realtà. Raramente pensiamo a coloro che si vedono costretti ad assistere per tutta la vita un famigliare psicologicamente problematico, magari per vedere solo un progressivo peggioramento della situazione. Ne ho conosciute di storie così, e credo non siano abbastanza rappresentate.
In “Pietre Sommerse” non volevo un racconto pedante sulle dipendenze, per questo ho voluto puntare su quello da cui io stesso vengo toccato quando vado al cinema: l’autenticità. Un film deve prima di tutto smuovere qualcosa nel profondo di noi stessi, permettendo a ciascuno di trarre ciò che gli è più utile.
Il corto riflette molto sulla tematica del giudizio. Spesso giudichiamo senza conoscere il passato delle persone, senza sapere cosa li abbia resi ciò che sono. Chi subisce ingiustizie in età di sviluppo della personalità, ne paga le conseguenze per tutta la vita.
Per questo è importante conoscere la storia di qualcuno prima di giudicarne i comportamenti, chiedendosi, prima di tutto, da quale situazione socio-culturale provenga, che esperienze possa aver vissuto. La realtà dei fatti non è mai in superficie, per intuirla ci vogliono empatia e creatività che dovremmo imparare ad applicare sempre. Questo vorrei arrivasse.
3. Come cambia il modo di portare avanti il racconto, rispetto alla precedente esperienza di “Amore Cane”?
Cambia molto, sia dal punto di vista della scrittura, dell’immagine, che dal punto di vista produttivo. “Amore Cane” ha dalla sua un racconto denso e ritmato, colmo di avvenimenti che si svolgono nell’arco di un ampio spazio temporale. “Pietre Sommerse” al contrario è quasi in tempo reale e le svolte narrative sono più profonde, ma interne ai personaggi.
Inoltre “Amore cane” era fortemente legato alla realizzabilità, era stato pensato per il budget che aveva. Potevo permettermi solo una Blackmagic, casa mia e alcuni studenti e amici a supportarmi. Per fortuna il corto è piaciuto e mi ha dato la credibilità necessaria per trovare i fondi di questo secondo progetto. Con “Pietre Sommerse” ho potuto pensare “in grande”, grazie al supporto di Motion Studio, Officina Immagini, Trentino Film Commission, Cassa Rurale di Ledro, il Comune di Ledro e tanti altri che ci hanno supportato. Quando hai al tuo fianco una squadra di professionisti affiati, e disponi delle migliori attrezzature, si possono fare grandi cose. Con Marco Benvenuti, il produttore, abbiamo ragionato su tutte le possibili soluzioni e mi è venuto sempre incontro.
Insomma, i due corti sono creature molto diverse. Se si vogliono trovare dei punti in comune c’è sicuramente il “non detto”, come motore narrativo trainante e il focus sui rapporti interpersonali.
Produttivamente, a pensarci, fa ridere che mettendo insieme i due lavori abbiamo usato tutti gli elementi che generalmente vanno evitati sul set: animali (il cane di “Amore Cane”), barche e bambini. Possiamo depennare questi tabù, dai. Scherzi a parte, sono davvero contento del risultato ottenuto con “Pietre Sommerse” perché la storia che si vedrà sullo schermo è fedele alla mia idea iniziale e credo che arrivi molto bene. L’effetto lo scopriremo una volta in sala.
4. Il corto ha una forte connotazione personale legata ai luoghi in cui è girato, che sono anche i tuoi luoghi, in che modo un legame affettivo così è un punto di forza per il tuo lavoro?
Conoscere a fondo la location credo abbia arricchito artisticamente il progetto e facilitato la produzione.
Basta pensare alla scelta della luce naturale diffusa come mood del corto. Grazie alla mia conoscenza del luogo, data da vent’anni vissuti qui, ho potuto pianificare le date di shooting mesi prima, proprio perché queste condizioni si verificano quasi matematicamente in un particolare periodo dell’anno. Alla fine per fortuna è andata esattamente come doveva andare: cielo nuvoloso e leggermente piovoso per quasi tutta la durata delle riprese. Conoscevo bene anche i punti da dove nasce e da dove cala il sole, la collocazione delle zone d’ombra e i loro orari. Insomma, la conoscenza è potere no?
Lavorare a due passi dal campeggio di famiglia, il Camping al Lago, ci ha permesso di avere un supporto logistico costante, oltre che per il vitto e alloggio. Anche l’aiuto di imprese e realtà locali è stato possibile perché mi conoscevano fin da quando ero bambino e si fidavano del mio lavoro.
In generale collocare una storia in un luogo del quale conosco ogni più piccolo particolare mi aiuta dalla fase di scrittura a quella realizzativa. Credo che quell’energia, quella connessione traspaia nel risultato finale arricchendo ulteriormente la storia.
5. Quanto è stato importante lavorare, per la produzione, con una squadra che conoscevi bene e che credeva nel progetto?
Molto. È fondamentale creare una squadra con cui lavorare divertendosi. Realizzare un contenuto audiovisivo è un lavoro composto da molte fasi e in ognuna c’è uno specialista di cui ci si deve poter fidare. Il regista è il centro nevralgico di questi rapporti e secondo me deve fare un po’ da collante.
Ho portato alcune idee a Marco Benvenuti di Motion Studio e ha scelto “Pietre Sommerse” fra altre che gli avevo proposto perché era convinto, la storia gli è piaciuta subito. Ero proprio contento, perché era anche la mia preferita.
Con Sergio si voleva lavorare assieme da tempo e ha dato subito la sua disponibilità. Purtroppo, non c’è stato modo di far collimare le date delle riprese con gli impegni di Officina Immagini, ma abbiamo potuto collaborare per tutta la fase di postproduzione. Questo ha arricchito il progetto dell’enorme esperienza di Alessandra Cernic e Sergio Cremasco con i quali mi sono trovato benissimo, grazie all’ottima comunicazione e al loro pragmatismo, utilissimo per uno come me che tende a ripensare ogni cosa miliardi di volte.
Affidarsi senza timore alla professionalità dei collaboratori è fondamentale, perché ognuno di loro ha le competenze che servono per dare forma alla mia idea nella maniera più corretta. Per esempio, con Noemi Intino che ha curato i costumi, ci siamo sentiti per giorni in fase di preproduzione. Dovevo comunicarle con precisione la caratterizzazione dei personaggi, per accordarci su quella che ci pareva migliore.
Quando c’è intesa è più facile coordinare tutti i pezzi, che devono essere perfetti dall’ideazione alla distribuzione di cui si occuperà Tiny Distribution, e che verrà conclusa dalle vendite internazionali a cui penserà Zen Movie.
Al cinema l’immagine che si vede sullo schermo è il risultato dello scambio tra un gruppo di creativi. È, per me, la reazione chimica dell’incontro tra le loro menti su un progetto condiviso.
6. Quali sono secondo te gli elementi irrinunciabili per un’intesa che funzioni sul lavoro? Quali sono le idee condivise che ti legano al gruppo di Officina Immagini?
Cerco persone competenti e capaci di ascoltare, che credano in una certa empatia come elemento unificante del gruppo, cose che, in Officina, ho certamente trovato. Poi i miei rapporti lavorativi non sono mai strettamente tali, vanno ben oltre. Con Nicola lavoro così bene perché le nostre chiacchiere continuano all’infinito, anche quando porta il cane in passeggiata e io lo accompagno. Lo stesso vale per il mio amico e aiuto regia Daniele Leoni, da cui vado sempre a chiedere un parere prima di partire con una produzione.
Il cinema è una costruzione collettiva, se cambi un ruolo, cambia tutto, e questo va tenuto presente, perché la sensibilità di ognuno va a dare un tono marcato al progetto. Per “Pietre Sommerse” l’idea su cui sono stato d’accordo da subito con i colleghi di Officina è stata quella di fare tutto in funzione del racconto.
7. Come ti muovi con il tuo direttore della fotografia? Come è nato l’approccio adatto a questa particolare narrazione?
Di solito raccolgo reference di colore e luce in un moodboard che gli propongo. Discutiamo insieme le scelte e ne viene sempre fuori qualcosa di nuovo che poi si canalizza e fonde in una visione comune. Siamo molto affiatati e ci capiamo al volo.
Poi Nicola Cattani dice sempre che lui è un “vicario” e che l’ultima parola spetta a me come regista. È un gran professionista, che mette il film prima dell’orgoglio.
Dal punto di vista tecnico abbiamo scelto di girare con un’Alexa mini e ottiche Cooke mini s4, un sistema relativamente compatto che offre la pasta dell’immagine giusta per il mood del corto, drammatico e introspettivo. Abbiamo cercato ad ogni costo l’utilizzo di luce quasi esclusivamente naturale e diffusa, perché volevamo creare una sensazione di intimità. Ne è valsa la pena, anche se ci è toccato stare ai cambiamenti del meteo. Credo che abbiamo lavorato efficacemente perché tutto vada verso il grande pugno nello stomaco che desideravamo.
8. Quali sono i colori delle tue “Pietre Sommerse”? Come ha lavorato Sergio per tirare fuori l’atmosfera giusta?
Ero partito da spunti di atmosfere colore, che poi ho discusso con Sergio per trovare una direzione comune e lui ha colto subito quali erano le esigenze drammaturgiche. Con la precedente esperienza dei festival mi sono reso conto che ogni spunto ti dà qualcosa che poi ti porti nel progetto successivo. Ognuno ha il suo bagaglio, e da questo punto di vista, lavorare con una persona che ha l’esperienza di Sergio, rappresenta un valore aggiunto incalcolabile.
Abbiamo scelto colori desaturati, freddi, su un fondale di luce diffusa. Sergio ha dovuto incidere le figure, creare dimensione e contrasto.
A me piaceva l’idea di avere una grana molto presente, simile a quella della pellicola Kodak anni ’80 ma poi dopo alcuni test abbiamo scelto una grana meno presente. Per quanto riguarda invece la palette, decisa in fase di progettazione, abbiamo optato per un gioco di blu e grigi, con il lago che pare a tratti argento vivo, a rimarcare la sua importanza come metafora della memoria.
Il colore serve anche a sottolineare i momenti del vissuto dei protagonisti: il passato è vivido, acceso, caldo, il presente desaturato e meditabondo, mentre le subacquee, rifugio nella memoria del personaggio di Elia, sono praticamente monocrome.
9. Quali sono i mezzi comunicativi che avete scelto per raccontare questa storia, per trovare l’effetto più calzante con la drammaturgia?
Oltre alla luce e al colore, abbiamo puntato ad allineare ogni elemento con il mood generale. Il lavoro con gli attori, Gabriele Falsetta e Michael Schermi è stato fondamentale. Ci siamo trovati a Roma, in un teatro nel quartiere Pigneto, dove abbiamo riscritto alcune battute in modo da renderle più scorrevoli e realistiche.
Abbiamo cominciato le prove ed il lavoro di coaching di Giulia Grandinetti ha fatto la differenza. Essendo la parte molto dialogata abbiamo proposto agli attori degli esercizi, come quello di far recitare a Michael e Gabriele il testo con il solo corpo. In questo modo potevano vedere come si sentiva l’altro ad un dato punto del dialogo. Riprovandola avevano trovato la sintonia, la fratellanza che cercavamo.
Per quanto riguarda l’audio, Daniel Covi, il fonico di presa diretta, ha lavorato in condizioni difficili, ottenendo un risultato che Tommaso Barbaro, responsabile di sound design e mix per Fullcode, ha concluso alla grande.
Sono fierissimo della colonna sonora originale nata dall’incontro con Francesco Marzola. Anche in questo caso avevo due reference musicali in testa di cui ho parlato con Francesco, che ha subito capito cosa volevo, componendo la colonna sonora in tempo record e con una qualità di esecuzione e registrazione incredibili, nel suo studio a Sofia, in Bulgaria.
10. Qual è, per te, il momento più entusiasmante del lavoro? Quando vedi spuntare l’idea, quando passi per tutta la fatica che serve a renderla visibile, o quando finalmente appare sullo schermo, così come l’avevi immaginata?
Tutto il processo è emozionante, ma il momento che mi dà più soddisfazione è quello dell’illuminazione che precede la scrittura. Quando so di aver trovato un’idea che vale la pena raccontare, sulla quale desidero lavorare per i successivi due o tre anni. Scrivere è la parte che mi interessa di più, ma è anche molto faticoso. Amo poi il set e l’adrenalina di vedere esplodere quell’idea che prima esisteva solo su carta, in qualcosa di nuovo, con tutto quello che gli altri creativi coinvolti portano nel progetto. Le sorprese arrivano soprattutto dalle interpretazioni degli attori. Sulla scena in barca, per esempio, mi sono proprio commosso. Avevo le lacrime dicendo “ottima” all’edizione.
Ovviamente anche vere il film proiettato davanti ad un pubblico mi emoziona, perché è il momento della verità. Mi interessa sentire cosa ne pensa la gente. La cosa divertente è che ognuno ha un’interpretazione diversa e spesso vede qualcosa che nemmeno tu avevi immaginato.
In generale la cosa che mi appassiona rimane l’antico rito di smuovere gli animi attraverso una storia: la gioia di raccontare e di riuscire a coinvolgere chi guarda. Non credo nell’arte solipsistica. Scrivo perché so che qualcuno leggerà, realizzo film perché so che qualcuno li vedrà. Altrimenti me li facevo nella testa e basta, no?
È proprio quando le storie si materializzano, quando escono dalla mia testa, che mi rendo conto delle tematiche ricorrenti, che mi stanno particolarmente a cuore. Scrivo spesso di personaggi incatenati alla propria vita, che desiderano indipendenza ma soprattutto libertà. Per averla però, devono abbandonare un legame troppo stretto, un po’ come quella pietra che Elia tiene tra le mani, ma che dovrà lasciare andare, se vorrà tornare a galla e respirare.