11 Agosto 2023 Irene

La color correction di “Pietre Sommerse”

Sergio Cremasco racconta L’atmosfera del dramma.

1. Come hai conosciuto Jordi Penner? Com’è nata la vostra collaborazione riguardo la produzione di Pietre Sommerse?

Ho conosciuto Jordi Penner attraverso Nicola Cattani, il direttore della fotografia, che è un mio amico di sempre, con il quale ho condiviso molti progetti. Con Nicola ci siamo conosciuti sul lavoro anni fa, a Cinecittà Digital e da lì non ci siamo più mollati. Ci piacciamo sul lavoro, siamo due anime molto affini a livello artistico e spesso ci troviamo a pensare esattamente la stessa cosa per quanto riguarda composizioni, luce, tagli, sia quando io sono alla regia e lui è il mio dop, sia quando ci confrontiamo in post-produzione. Ancor di più siamo legati da un’amicizia vera, lo considero uno di quegli amici che si contano sulle dita di una mano.

Nicola mi aveva parlato di Jordi Penner come un regista giovane e talentuoso. L’idea era quella di coinvolgere Officina già per la produzione del suo primo corto, “Amore Cane”, ma non ci siamo trovati sui tempi. Jordi continuava spesso a spuntare nelle conversazioni, quindi ci siamo impegnati per condividere questo progetto di “Pietre Sommerse”. Anche in questo caso gli incastri di tempi non sono stati facili, ma non abbiamo perso la possibilità di lavorare assieme e Officina è entrata come coproduttore, mettendo la postproduzione.

2. Qual è, secondo te, un elemento assolutamente necessario perché un gruppo di lavoro funzioni bene come il vostro? Quanto è stata importante questa intesa?

Secondo me è fondamentale farsi guidare da una comunione di intenti. Trovare una sintonia a livello creativo, dove la parola di uno dev’essere completata da quella dell’altro. Bisogna arrivare a comunicare tutti attraverso la stessa lingua, che non è dettata dal regista, ma dalla storia e bisogna entrare in questo codice linguistico tutti assieme, in contemporanea. Tutte le scelte artistiche, poi, vengono dal racconto del film, si giustificano su quello. Lo stesso regista ha come riferimento la storia e deve staccarsi da sé stesso. Sembra una contraddizione, ma lo è solo in apparenza, perché per il bene della storia anche le decisioni del regista devono essere prese seguendo la lingua, i vocaboli della narrazione e non il suo personale pensiero sulla narrazione stessa.

Il tema qui era forte e molto interessante, dovevano uscire con chiarezza tutta una serie di cose che stavano dietro. Abbiamo messo Jordi di fronte a delle scelte, perché bisognava arrivare dritti su determinati punti, non si poteva raccontare tutto. Per arrivare al succo occorre stare lontani da sgambetti, togliere il superfluo e abbandonare certi desideri iniziali.
Tra l’altro questa era la prima volta in cui Jordi veniva affiancato da una montatrice di professione, Alessandra Cernic, e non si occupava lui stesso del montaggio con alcuni collaboratori. Ha sperimentato un nuovo modo di lavorare e ci siamo trovati bene nel confrontarci per tirare fuori il meglio dal materiale.

3. Quando hai per le mani un nuovo lavoro, come ti confronti con il regista? Quali sono gli elementi irrinunciabili da cui partire? Da cos’è nata l’atmosfera colore giusta per questo racconto?

Per prima cosa ascolto i pensieri del regista ed è un compito arduo farlo con la massima apertura, senza essere condizionati. Da queste prime chiacchierate arrivano tonnellate di contenuti: bilici di informazioni che vengono scaricate e che poi vanno ritrovate nel corto. Infatti, una cosa è parlare una cosa è ritrovare i discorsi nel lavoro fatto. Bisogna capire cosa è stato mantenuto, rispettato, dell’idea iniziale, cosa c’è di quell’idea nei risultati del lavoro. Le cose cambiano per tutti in fase di lavorazione, quando si materializza la storia non può rimanere la stessa, non può esserci tutto perché è impossibile esprimersi allo stesso modo nel dire e poi nel fare. Quindi occorre capire cosa si ritrova concretamente e da una parte, prendere il buono, quello che è rimasto integro, dall’altra prendere coscienza che certi aspetti risulteranno edulcorati, trasformati, altri addirittura andranno persi.
Il mio lavoro è stato agevolato perché ho seguito tutta la fase di montaggio. Sapevo già la genesi di determinate scelte perché avevo ascoltato i discorsi fra Jordi e Alessandra, conoscevo le possibilità che erano state escluse, quindi avevo già filtrato le informazioni, mi ero fatto un’idea di come raccontare.

Quando sono arrivato a colorare avevo già un’idea chiara del look, l’ho trovato in pochissimo tempo perché ce l’avevo già in testa, era solo da fare. Infatti, quando ho detto ai ragazzi che per me l’atmosfera era così, sono stati subito d’accordo. La parte difficile non è stata rendere tutto quello che era stato detto nell’immagine, ma mantenere una continuità lungo le scene del corto. Le scelte fotografiche che erano state fatte sul set mi davano pochi elementi su cui lavorare. Ci sono solo due personaggi sulle sponde di un lago, con uno sfondo di luce naturale, che in un ambiente del genere cambia in continuazione.
Costruire la realtà, con quella pulizia, semplicità, trasparenza, non è per niente facile. Dunque, il look lo avevo assorbito dentro di me, dopo tutte le chiacchiere e i confronti, il difficile è stato mantenerlo. Mentre coloravo ho dovuto fare molte correzioni successive per ottenere la continuità senza rinnegare l’atmosfera. Quando la luce era giusta sui personaggi cambiava sui fondi, sulle montagne, o nella flessione sull’acqua, tanto che ogni volta che mi chiedevano di vedere il materiale dicevo sempre che c’erano tante cose da migliorare, di cui non ero contento, che andavano riviste per restare dentro il codice linguistico condiviso che avevamo deciso e accettato assieme.
Sono contento del lavoro di Officina, perché credo che la postproduzione abbia valorizzato il materiale. Ce l’abbiamo messa tutta per vestire a pennello la storia, tirando fuori il massimo da quello che avevamo.

4. Pietre Sommerse è un dramma reale, molto forte. Come ci si approccia ad una narrazione tanto drammatica in fase di  color correction?

Non è una scelta facile, ma l’equilibrio vince sempre. Caricare una storia già drammatica è rischioso perché può renderla stucchevole e privarla della sua forza. Il colore è importantissimo da questo punto di vista. Colori da soap opera o da commedia sminuiscono il dramma, portano da un’altra parte, verso il fumetto, la caricatura, rischiano di far perdere tutta l’efficacia. Trovare il look giusto in color è un po’ come scegliere l’abito adatto per un’occasione particolare. L’abito deve stare perfettamente addosso a te ed essere giusto per la circostanza dell’evento. Valorizzarti e non farti sfigurare davanti agli altri ospiti. Per fare questo serve una conoscenza profonda della storia e un’empatia che ti porti a scovare le componenti che occorrono per cucire il vestito perfetto. Quello che non si mangia il racconto, ma allo stesso tempo non lo sminuisce, né lo fa diventare un’altra cosa. Il materiale può essere buonissimo, una materia prima eccezionale come la seta, ma se poi la sarta non sa fare il vestito in postproduzione, anche la migliore stoffa viene rovinata.

5. Il colore, in questo corto, segue il percorso emotivo del dialogo fra i due fratelli protagonisti. Come hai lavorato per tirare fuori le diverse sfumature delle loro emozioni?

In realtà in questo caso non si tratta di un percorso dinamico, che procede da un punto all’altro facendo dei salti. Il dialogo fra i due fratelli non porta ad un vero e proprio colpo di scena, ma ad una situazione conclusiva che rimane aperta. In generale il codice linguistico del cortometraggio prevede una storia unica, lineare, pulita, che ti arriva dritta addosso. Nel caso di “Pietre Sommerse” un grande punto di forza è seguire tempi praticamente reali. Lo si guarda come se stesse accadendo, con le stesse tempistiche. Per mantenere questo effetto abbiamo cercato la continuità anche in color correction, evitando gli strappi.

La scelta di una luce piatta, diffusa, tutta naturale mi ha creato delle difficoltà, perché caratterizzare la neutralità non è semplice. In questo senso avere Nicola che lavorava sulla fotografia è stato un aiuto, un incastro ottimo in una situazione di lavoro difficile. Conoscere così bene chi c’è sul set ti fa arrivare ad una color rispettosa delle scelte fatte in precedenza. Leggere cosa trovi nelle immagini diventa più immediato, perché conosci chi le ha costruite e come lo ha fatto. Sai che dietro a quel colore ci sono già mille discussioni fra regista e dop sulla migliore strategia da adottare per la storia. E chi sei tu per scoordinare tutto?
La color correction si posiziona nel punto della post-produzione dove l’imbuto si stringe, quindi bisogna mettere le mani su tutti i problemi che si sono presentati in precedenza. Il principio di base è che con il colore come con l’energia, nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. Al montaggio ci sono cose che vengono aggiunte per lavorare più fluidi, o inquadrature che vengono tolte perché gli attori non appaiono al meglio. In color invece trasformi colori che già hai. Se hai il rosso lavori con quello, perché c’è una motivazione precisa dietro a quel rosso e quella scelta va rispettata. Se ti serve il rosso puoi prendere un altro colore e trasformarlo, ma non inventi niente. Io ho una palette di partenza, una tavolozza con dei colori che sono quelli, se il rosso proprio non c’è, devo farne a meno.

, , ,