14 Settembre 2022 Sergio

Michele D’Attanasio e l’estetica del bianco e nero per “Ti Mangio il cuore”

Il Direttore della Fotografia Michele D’Attanasio ci racconta in questa intervista i pericoli e le possibilità del bianco e nero come scelta estetica per “Ti mangio il cuore”, l’ultimo film di Pippo Mezzapesa.

Di che cosa ti occupi? Da dove nasce il tuo interesse per la fotografia?

Com’è iniziata la tua carriera nel cinema, e cos’ha significato per te la vittoria del secondo David di Donatello?

Mi occupo della direzione della fotografia, un interesse che ho avuto fin da ragazzino. Credo che la passione che mio padre ha sempre nutrito per questo mondo, nonostante si occupasse di tutt’altro perché insegnava educazione tecnica alle scuole medie, mi abbia inconsciamente stimolato da sempre.

Quando avevo undici o dodici anni, ricordo che aveva acquistato una delle prime videocamere abbordabili dell’epoca. Era la fine degli anni ’80, la cultura delle riprese era ancora un mondo segreto, non sviluppato, tecnicamente nebuloso. Lo stesso cinema, che rappresentava l’unica forma di espressione visiva tecnologica, era percepito come qualcosa di lontanissimo da chi come me viveva in provincia, lontano da Roma.

Ho iniziato a riprendere appropriandomi della videocamera di mio padre, senza alcun tipo di cognizione, ma con parecchie idee. Non esistevano i tutorial, quindi ho imparato tutto da autodidatta procedendo per intuizioni e facendo delle prove. Allo stesso modo ho cominciato ad approcciarmi al montaggio dei miei filmini, inventandomi i mondi più disparati per procedere, anche nei casi in cui non sapevo proprio come fare.

Negli anni poi ho capito che per fare un film ci voleva la troupe, cosa che da piccolo non sapevo.

Ho studiato regia al Dams di Bologna e lì ho capito che trai collaboratori del regista, il ruolo più giusto per me era quello del direttore della fotografia, perché volevo costruire fisicamente le immagini, curare l’estetica. Imparare a farlo è stato molto bello, soprattutto a Bologna, una città underground, del tutto indipendente da alcune logiche della grande industria italiana del cinema. Bologna mi ha dato molta linfa vitale, una spinta per iniziare a sperimentare e solo quando ho sentito che non poteva più aiutarmi mi sono spostato a Roma, con tutte le difficoltà di chi arriva nella capitale da esterno, per continuare a costruire la mia carriera.

La vittoria del secondo David di Donatello per me rappresenta il riconoscimento di tutto questo viaggio, anche perché quest’anno in competizione c’erano grandi colleghi con grandi film, forse più che nel 2017. Avendo scritto la mia tesi di laurea su Giuseppe Rotunno, maestro assoluto della fotografia, riuscire a vincere due David proprio come lui, per me è un po’ come chiudere un cerchio perfetto.

Cosa racconta Ti mangio il cuore?

Quali scelte sono state fatte per valorizzare questa storia?

Ti mangio il cuore è tratto da un libro, che racconta una storia vera. La narrazione segue le vicende di una donna che faceva parte della mafia del Gargano, un’organizzazione criminale molto rurale, fatta di contadini e allevatori, che vivono nella terra e nel fango e che non hanno nulla a che vedere con il lusso sfrenato, o con il modo di fare iconico alla Gomorra.

La protagonista, Marilena, interpretata da Elodie, è stata la prima pentita della mafia del Gargano. Madre di tre figli, i primi due appartenenti a una famiglia, il terzo che porta il nome della famiglia rivale, Marilena sarà al centro di questa mescolanza di sangue capace di innescare sentimenti di odio e vendetta, finché non riuscirà a scappare e a denunciare la sua situazione. La storia è molto forte, drammatica, per questo non è facile da raccontare e porta con sé tutta una serie di pericoli estetici.

Quali sono state le maggiori difficoltà di “Ti mangio il cuore” a livello fotografico?

La grande difficoltà è stata uscire da tutto quel mondo che viene etichettato come “crime”, una scelta necessaria, soprattutto in questo periodo di piattaforme dove ogni cosa tende ad essere catalogata. Il genere crime è un terreno scivoloso perché rappresenta qualcosa di già visto. Dalle origini con Romanzo Criminale, passando per il successo di Gomorra, o di Suburra, tutte le sfaccettature mafiose e camorristiche sono state in qualche modo toccate. Il grande rischio è fare una fotocopia.

Anche la scelta del regista Pippo Mezzapesa di lavorare con Elodie, una decisione giustissima, dal momento che la cantante è un volto cinematografico pazzesco, può far pensare a una versione più glamour di Gomorra, che coinvolge una delle icone pop più in vista del momento. Quello che non volevamo era proprio questo: un’estetica bellissima, ma fine a sé stessa. Quindi, per discostarci da tutto un genere ben noto, abbiamo scelto di lavorare in bianco e nero.

La scelta del bianco e nero richiede una preparazione tecnica e un’impostazione sul set molto particolari. Che possibilità dà questo modo di lavorare al dop, rispetto al colore?

Il bianco e nero permette di dare vista ad un’altra estetica, crea un nuovo percorso per lo spettatore, diverso da quello già battuto. In questo film ci ha permesso di uscire da tutte le dinamiche del genere crime, dalle logiche di catalogazione troppo strette.

Volevamo evitare in tutti i modi che in Ti mangio il cuore regnasse il “tutto a posto”, il “ben fatto”, l’estetica perfetta, a cui però manca l’anima.

Personalmente il bianco e nero mi ha sempre affascinato. Mi viene in mente una citazione dell’immenso Gianni di Venanzo, che ho letto nel libro “Esterno Giorno. Vita e Cinema di Gianni di Venanzo operatore”, dedicato al direttore della fotografia. Parlando del passaggio dai film in bianco e nero al colore in Italia, tra gli anni ’50 e ’60, Di Venanzo dice: “Il colore è troppo reale. con il bianco e nero si può allo stesso tempo costringere lo spettatore al proprio gusto e lasciargli un ampio margine di immaginazione. Con il colore questo non è possibile”. L’idea era esattamente questa.

Quando giri in bianco e nero ti rendi conto che stai lavorando con la luce assoluta. C’è solo la luce o la sua assenza, l’ombra. A livello empirico si sa, ma vederlo dal vivo ha esaltato molto tutto il team creativo. Anche perché questa scelta è stata condivisa con tutti: scenografie, trucco, costumi, ogni componente della squadra lavorava in funzione del bianco e nero. Io e il regista, per primi, ci siamo recati nei luoghi dove avevamo ipotizzato di girare, tre o quattro mesi prima di iniziare le riprese, per fare dei test, dei provini in bianco e nero. Una volta scelto il bianco e nero giusto lo abbiamo mostrato a produzione e distribuzione, che erano piuttosto titubanti, ma abbiamo continuato a sostenere la decisione prendendoci il rischio. Ne è davvero valsa la pena!

Come sono stati scelti gli strumenti più adatti per questa narrazione (Macchina da presa, ottiche, ecc.)?

Come e che cosa è stato fatto per arrivare a definire il look di “Ti mangio il cuore”?

Abbiamo lavorato molto in preproduzione, facendo diversi provini.

Il bianco e nero digitale, nonostante il forte lavoro che Sergio Cremasco ha fatto in color, mantiene un effetto troppo pulito, che volevamo sporcare. Abbiamo scelto delle ottiche russe rincamiciate di casa Iron Glass, ed è molto bello pensare che abbiamo girato un film vero con delle lenti che ai mercatini trovi a prezzi sui 70 euro.

Queste ottiche girano dagli anni ’50, portano nell’immagine tutta la pastosità, tutto quello che vi si è accumulato nel tempo e sono valorizzate alla grande dalla macchina da presa che abbiamo scelto, la Sony Venice, sia per una questione di praticità nella lettura dei neri, sia per la possibilità di lavorare in large format. Il risultato dato da questa serie di ottiche con diaframmi diversi è un senso di non perfezione dell’immagine, che ha funzionato benissimo, conferendo la magia che desideravamo al film.

È stato un percorso davvero stimolante.

Com’è stato impostato il lavoro con il colorist?

Quali scelte sono state fatte in fase di correzione colore?

Tutta la fase dei provini che abbiamo fatto per scegliere il look giusto è stata seguita anche dal colorist. Penso che prima di iniziare a girare, il film sia per metà già fatto, nel senso che la preproduzione segna il taglio da dare all’immagine, e quindi va seguita insieme.

La color non è fine a sé stessa, quindi il rapporto tra produzione e postproduzione deve partire da quando mi immagino il film. Una color bellissima, ma impersonale, inadatta, non emoziona. Devo avere in mente l’immagine definitiva, per sapere come trattarla, e condividere le scelte con il team, perché il pubblico vedrà il film alla fine.

Insomma, per me il film è già lì prima di girarlo, per Ti mangio il cuore lo è stato ancora di più dato che dopo aver individuato il bianco e nero giusto, abbiamo lavorato sempre e solo in assenza di colore. Sul set, infatti, abbiamo girato tutto in bianco e nero.

Vedere le scene colorate era vietato: nelle uscite di camera, nelle fotografie, nessuno poteva vedere a colori. Così i nostri occhi hanno iniziato a guardare in bianco e nero, sempre più allenati a cogliere un numero maggiore di sfumature di grigio. È stata una crescita che abbiamo fatto tutti assieme prima di girare, e che abbiamo portato sul set come in postproduzione, tenendo presente che il pubblico vede il film finito, dopo tutte le fasi di lavorazione e che questa consapevolezza va costruita con tutti i collaboratori, per mirare dritti e realizzare ciò che si ha in testa.

Qual è, secondo te, l’elemento più forte di questo film?

Cosa vuole trasmettere al pubblico?

Come in tutti i film che mi piacciono, l’elemento più forte sono la storia e gli attori, diretti da una buona regia. In questo caso anche l’impatto visivo del bianco e nero, che porta lo spettatore ad essere più libero di sviluppare una propria interpretazione personale, è qualcosa che funziona molto bene.

Grazie Michele!

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